Carlotta, parlaci del libro, An Attic full of Train, dove hai raccolto alcune delle foto di tuo nonno Alberto. Cosa rappresentano per te? E perché hai sentito la necessità di pubblicarle?
Il lavoro di editing, soprattutto data l’enorme quantità di immagini a mia disposizione (parliamo infatti di 12.000 fotografie) è stata la parte più difficile di questo progetto. Mi ci sono voluti quasi 5 anni per riuscire ad arrivare ad una selezione finale che ho comunque continuato a modificare e rivedere fino al secondo prima di consegnare il file finale allo stampatore.
La prima grande selezione è nata lavorando al profilo instagram @grandpa_journey che avevo da subito creato con lui per divertimento, decidendo di caricare e condividere le sue immagini. A forza di sfogliare i file in archivio mi sono presto accorta di come alcune fotografie dialogassero naturalmente tra di loro e creassero in qualche modo una nuova storia, nonostante fossero state scattate in momenti e luoghi diversi. Ho quindi sentito il bisogno di trasformare questo mio infinito lavoro in un libro. In questo progetto volevo riuscire a racchiudere la maggior parte dei temi ricorrenti nelle sue immagini e farli dialogare tra di loro infondendo questo senso di ironia, romanticismo e avventura che le sue immagini riescono a trasmettermi. Sono sempre stata colpita da come riuscisse, in egual modo, a cogliere determinati attimi e aspetti sia delle persone a lui più care che di quelle sconosciute o appena incontrate. Lo stesso accade anche nelle fotografie di oggetti e paesaggi…le immagini della casa in cui è cresciuto e i luoghi vissuti solamente per brevi istanti vengono ritratti con la stessa forza e tatto. Quello che mi premeva di più in questa prima raccolta era riuscire a trasmettere questa immensa gioia di vivere che provo ogni volta che mi immergo nel suo archivio. Volevo che, seppur non conoscendo la storia e le persone ritratte, chi si trovasse a sfogliare le pagine del libro provasse lo stesso. Da qui anche la scelta di eliminare le didascalie o ogni forma di riferimento per portare lo spettatore a sentirsi le immagini un po’ sue o parte dei suoi ricordi.
L’altro elemento che mi ha sempre colpita è il mix di sensualità ed ironia presente in molte delle immagini: come si può facilmente notare dopo aver sfogliato poche pagine, mio nonno era attratto dalle donne e dalle forme del corpo…a sua difesa però, devo dire che la maggior parte dei fondoschiena ritratti sono di mia nonna!
Quando e in che circostanza hai scoperto le sue fotografie?
E’ successo un po’ per caso: il giorno in cui mi ha parlato per la prima volta del suo archivio fotografico eravamo nel bel mezzo di uno dei nostri pranzi di famiglia quando ha iniziato a raccontarmi una storia su come, quando mio papa’ era piccolo, lo faceva “volare sopra ad un cuscino”. Vedendomi divertita ha deciso di mostrarmi alcune foto che aveva scattato di questi momenti. Una volta acceso il computer ha iniziato a passare da un file all’altro, alla ricerca di quelle foto, facendomi subito innamorare di quelle immagini. Ero diventata la sua art dealer.
Queste immagini e il modo in cui mio nonno si emozionava mentre le condivideva con me, attingendo alla sua memoria incredibilmente dettagliata, mi hanno fatta innamorare della fotografia e hanno condizionato tutta la mia vita lavorativa in questo campo. Penso che guardarle continuamente, prendendole come riferimento, mi abbia inconsciamente indirizzata a prediligere e ricercare un particolare tipo di estetica nelle immagini. Grazie a lui ho deciso di andare a Milano a studiare fotografia e diciamo quindi… diventare una fotografa. Poco dopo però mi sono resa conto degli altri aspetti di questo mondo, verso cui mi sono da subito sentita molto più attratta. Ho iniziato a studiare legatoria, photo editing e ricerca iconografica e ho lavorato per 3 anni a Milano per una curatrice di mostre ed eventi fotografici. Da lì la mia ossessione per i libri di fotografia è cresciuta sempre di più fino a portarmi a Londra dove ho iniziato a lavorare per MACK, un’importante casa editrice indipendente.
Le migliaia di scatti che compongono l’archivio di Lenardo si trovano ancora lì nella soffitta dove le hai viste la prima volta?
Mio nonno era una delle persone più organizzate che io abbia mai conosciuto. Conservava ossessivamente ogni manuale di istruzione, bustina, scatola o qualsiasi cosa di cui un giorno avrebbe potuto avere bisogno. Nel suo studio tutto era (quasi maniacalmente) organizzato ed etichettato ma…. essendo lui un grande appassionato di tecnologia…quando i primi scanner iniziarono a diventare abbordabili per tutte le tasche, si entusiasmò all’idea di poter scannerizzare le sue diapositive e decise quindi di farlo per poi, una volta ottenuti i file digitali dell’intero archivio, buttarle via. Per lui infatti le diapositive occupavano solamente spazio in casa e avere tutte quelle immagini sul computer le avrebbe rese più accessibili. Per lui erano dei semplici ricordi di amici e famiglia a cui nessun altro sarebbe stato interessato .
L’archivio mi è quindi stato passato da lui in un modo poco romantico ma molto pratico: è bastato un semplice copia ed incolla delle cartelle che aveva pazientemente organizzato, suddiviso e catalogato.
E cosa puoi dirci di lui, di questo grande inedito della fotografia italiana? Quando ha iniziato a fotografare?
Mio nonno era un uomo alto e robusto con un portamento elegante. Teneva sempre i capelli molto corti e indossava la giacca anche in occasioni informali. A prima vista poteva sembrare piuttosto severo ma bastavano pochi attimi per coglierne l’estrema ironia. Era un uomo dalle infinite passioni: viaggi, libri, film, collezioni di oggetti, macchine e aeroplani lo avevano sempre affascinato. La fotografia tra queste, è sempre stata per lui niente di più cha una passione, un modo per comunicare sentimenti che la sua generazione riusciva difficilmente ad esprimere a parole. Una delle cose che lo divertiva di più era fare partire discussioni con amici e familiari sugli argomenti più disparati. A volte faceva delle affermazioni in cui nemmeno lui credeva solamente per fare iniziare a discutere le persone attorno a lui e poterne cogliere la reazione.
La prima fotografia l’ha scattata da casa sua a Bologna a 18 anni e l’ha archiviata con la seguente didascalia: “Agosto 1948. Veduta dalla mia casa di viale Risorgimento. Nella casa di fronte, all’ultimo piano, abita una ragazza che mi piacerebbe conoscere…”. Da quel momento non ha più smesso fino al 2018, quando a 88 anni, è venuto a mancare lasciando un archivio di 12.000 immagini. Nelle sue fotografie e didascalie c’è il racconto di una vita: i primi amici e amori, le prime foto e il primo bacio con quella che sarebbe poi diventata mia nonna, le scampagnate e gli innumerevoli viaggi in giro per il mondo.
Suo padre prima di lui era un foto amatore e gli ha quindi insegnato molto di quello che sapeva. Mio nonno era sempre stato più interessato alla macchina fotografica e alle sue potenzialità, più che alla fotografia stessa. Era infatti abbonato ad un gran numero di riviste fotografiche che studiava e collezionava. Si divertiva a sperimentare e ricreare quello che lo aveva colpito nei rotocalchi. Amava i libri e le riviste particolari ed era quindi un divoratore di immagini a tutto tondo. Nella sua libreria si potevano trovare pochissimi libri di fotografia. Credo quindi che conoscesse molto bene la tecnica e la storia della fotografia ma che nel momento dello scatto agisse di puro istinto.
Mentre, secondo te, cosa rappresentano le sue foto oggi?
Da un punto di vista del tutto personale queste immagini per me rappresentano mio nonno: la sua vita, i suoi ricordi, le storie che è riuscito a raccontarmi e quelle che non ha fatto in tempo a dirmi.
Da un punto di vista più distaccato invece credo che rappresentino una finestra sulla vita borghese di quegli anni: momenti di relax, vita quotidiana e privata in un’epoca in cui non si era soliti documentare tutto ciò che accadeva, al contrario di oggi. Un mondo quasi romantico che all’opposto di quello attuale sembra quasi essere fatto di libertà, avventura e spensieratezza.